Ciò che state leggendo non è un articolo dedicato specificamente a un artista ma, piuttosto, vuole trattare temi legati alla percezione della musica italiana oggi, alla società consumistica arbitrata da talent show e social media e porre, infine, anche qualche quesito sul legame tra musica e trasgressione, che di questi tempi riveste un ruolo marginale.
Per comprendere la musica in ogni suo contesto storico, è fondamentale riconoscere ed analizzare la connessione che vi è tra essa e la società in cui è inserita. Tale connessione custodisce in sé cause e caratterizzazione della musica in ogni sua forma.
C’era una volta in Italia…
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Un tempo in Italia vantavamo artisti del calibro di Patty Pravo, band come la PFM e gli Area con Demetrio Stratos. Grandi star italiane che scalavano le vette delle classifiche mondiali senza alcuna fatica, in un’epoca in cui difficilmente si emergeva oltre-nazione, o almeno così si pensa oggi.
Cos’è cambiato da allora? Com’è che la musica italiana odierna non viene in alcun modo esportata fuori? Come mai, esclusi pochi casi, i nostri cantanti pop e le nostre band non sono in giro per il mondo a calcare i grandi palchi internazionali ed a conquistare le classifiche? Siamo forse meno talentuosi di un tempo? Io non credo.
Il ruolo dei discografici

Certo é che i direttori artistici e discografici italiani hanno smesso di rischiare e scommettere sugli artisti: di dischi se ne vendono pochi, gli introiti dalla musica non sono più quelli di una volta e spesso l’artista sopravvive più grazie a live, collaborazioni con i brand e vendita del merchandising che agli introiti diretti della commercializzazione o streaming dei suoi brani.
Le produzioni “home made” fanno ormai parte del mainstream e a questo ne consegue un vantaggioso e drastico taglio al budget sulla produzione dei brani, a favore di un discreto dispendio di risorse economiche volte a dare “spinta” mediatica al personaggio: il marketing. D’altronde, siamo nell’epoca del consumismo sfrenato e la musica rientra in questo disegno.
La musica 2.0 e i millennials

Il ricambio incessante di giovani artisti ed il loro periodo di attività “a scadenza” si riflette anche nelle pratiche contrattuali delle case discografiche, con le quali i musicisti sono chiamati ad accettare condizioni limitanti e per niente vantaggiose.
Un altro aspetto riguarda il ruolo sociale che riveste il musicista o la band: non più figura apprezzata per le proprie qualità artistiche ma personificazione, agli occhi dei giovani, della scorciatoia per arrivare al successo monetario. Potenzialmente chiunque oggi è in grado di confezionare un prodotto musicale, col minimo dispendio di risorse e, di conseguenza, un minimo rischio.
Anche il modo di ascoltare e prestare attenzione alla musica è cambiato: le nuove leve, oggi, è come se soffrissero di “deficit dell’attenzione”, incapaci di concentrarsi davvero durante l’ascolto. Piuttosto, gli stessi prediligono sonorità che si prestano ad essere un mero “sottofondo” musicale che, incessantemente, canzone dopo canzone, fa da tappeto sonoro a mille altre attività più gratificanti.
Quantità > Qualità?

Ciò spiega il motivo per cui produzioni musicali troppo accurate che un tempo costituivano la prassi, oggi risulterebbero in parte sprecate ed in parte fin troppo macchinose per le tempistiche di realizzazione a cui bisogna sottostare.
I puristi della musica lo sanno bene e per questo non fanno che rinnegare qualunque tipo di sonorità provenga da quest’epoca contemporanea, lamentando il dilagare di una musica vacua e non vedendo di buon grado la sperimentazione, che sembra contribuire a realizzare solamente produzioni dagli stessi definite “indegne”.
Al di là di quelle che possono essere le dinamiche discutibili del music business odierno, bisognerebbe però tener conto del fatto che i grandi della musica a loro tempo furono considerati pionieri e vengono ricordati oggi per essersi differenziati da quanto già esisteva, innovando e sperimentando. Il disprezzo manifestato verso la musica, trasuda anche quando si parla di artisti emergenti per i quali non v’è supporto né adeguata retribuzione. Chi paga per ascoltare una band sconosciuta o non mainstream che sta sperimentando e facendo cose buone? Alzate la mano.
Sì ma in Italia non ci sono live house

È una vera e propria crisi della musica dal vivo che nel concreto coinvolge anche i locali storici del nostro Paese in più o meno tutta Italia; si pensi al Rainbow od al Transilvania di Milano.
In un modo o nell’altro la vita della musica live viene continuamente minata e tal volta, come abbiamo visto, la responsabilità è anche di coloro i quali non contenti di niente, rifiutano tutto in nome del “la vera musica era quella di una volta”.
Più critico ancora è il disinteresse da parte delle nuove leve nei confronti della musica suonata, alla quale si preferisce quella da discoteca, o su base (vedi la musica trap e hip-hop), per la quale si è disposti a pagare qualsiasi cifra.
Un’altra causa per cui la musica fruibile nelle discoteche sia quella di consumo realizzata elettronicamente è meramente di tipo economico: il dj/cantante è uno, mentre i musicisti da pagare sono diversi. In più vi sono i costi legati alla strumentazione e ai fonici.
La cultura musicale in Italia

La scarsa cultura musicale di cui soffre il nostro paese è cosa tristemente nota e, di certo, non è d’aiuto. Se in altri stati la musica di un tempo è sempre rispettata e presa d’esempio anche dai più giovani, quella nostrana, a noi giovani, quasi imbarazza.
Il fatto è che esiste una storia della musica italiana che ignoriamo del tutto e soprattutto, che nessuno ci ha mai insegnato. Rimaniamo così convinti che quello che conosciamo e disprezziamo oggi sia a prescindere meglio di qualunque cosa ci sia stato prima, in Italia per lo meno. Se si tratta poi di fare parallelismi tra ieri e oggi, la battaglia sembra vinta in partenza per noi millennials.
A questo proposito non può non venire in mente il famoso brano “I kissed a girl” (ho baciato una ragazza) di Kate Perry, uscito nel 2008, perché può in qualche modo esplicare l’atteggiamento popolare della nostra società: un brano che venne accolto con stupore tra i fan della musica pop e che espose la cantante ad un mare di critiche ed elogi che la definirono allo stesso tempo una ragazzaccia ed una vera trasgressiva.
Questo è un chiaro esempio di cosa basti oggi per definire un qualcosa “trasgressione”. Peccato che meriti ben più stupore il sapere che una grande artista italiana nel suo brano parla di una cosa che potrebbe realmente definirsi scandalosa e provocatoria per il periodo: un rapporto sessuale a 3, in una canzone del 1968. Parliamo di Pensiero Stupendo di Patty Pravo.
Prima eravamo più rivoluzionari? Beh…

Erano gli anni delle rivoluzioni è vero, ma ad un’Italia tenuta a freno dal moralismo sociale e politico dell’epoca poco importava quali progressi stesse facendo il mondo: e tutto ciò che usciva dai ristretti schemi era da considerarsi provocazione e trasgressione.
Probabilmente ciò che trainava i giovani di allora, i cosiddetti “baby boomer”, era la voglia di rivalsa dopo un periodo di guerra e distruzione, il sentire propria una nazione da ricostruire anche attraverso la musica, nonostante i limitati mezzi a disposizione. Noi, di mezzi, ne abbiamo fin troppi: è la voglia di rivalsa che scarseggia.
Se, come abbiamo detto in precedenza, la musica è lo specchio della società, la nostra si basa sul vivere una quotidianità in maniera bipolare, rifiutando tutto ed abbracciando tutto.
Conclusione
In una società come la nostra la vera trasgressione è non trasgredire. Perché se una volta ci si ribellava ai dettami di una società dogmatica e perbenista, oggi scorgere cause per cui ne valga davvero la pena escludendo i facili trend è molto più difficile e si rischia in un attimo di non essere “cool”.
Qualcun altro direbbe poi che oggi è semplice gridare alla trasgressione in un mondo in cui è già avvenuto tutto, in cui la trasgressione è divenuta normalità.
La realtà è che semplicemente sono cambiate le regole della società, ed essendo noi contemporanei, lasceremo la discussione aperta.
Articolo scritto da Elena P.
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